La storia di come venni in possesso dei documenti riguardanti Thombînjā e il suo mondo è insolita e avventurosa, e secondo me degna di un racconto.
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Mi trovavo, anni orsono -come peraltro ancora mi accade- a correre per boschi, seguendo sentieri piú o meno evidenti, cercando di imprimerne nella mente le svolte e gli incroci, in qualche punto provvedendo un aiuto alla memoria con improvvisate indicazioni di rami e pietre (a quei tempi non avevo un navigatore con mappe -libere- e geolocalizzazione satellitare).
Allora, piú velocemente del passo allegro, il cielo si copre di grigie e bianche nubi. Il bosco è fitto e la visibilità scarsa, la direzione del ritorno ancora vagamente determinata.
Al primo rimbombo del tuono le ombre stese fra gli alberi paiono meno amichevoli. Nell’intreccio di rami e fronde brillano lontani fulmini. Accelero il passo sforzandomi di evitare buche e radici coperte di foglie. La luminosità degrada, quasi per mettere piú in evidenza il lampo. Lo sguardo è concentrato sul terreno.
Ma inciampo, forse distratto da un arbusto mobile o da un pensiero non appropriato; mi piego in avanti e con un leggero scatto del busto mi raddrizzo senza danno (è la virtú protettiva della corteccia che porto con me in una tasca, penso con soddisfazione).
E, rialzati gli occhi sopra il sentiero e al tetto di rami abbracciati, mi appare un imprevisto manufatto.
Aprendosi gli alberi come a formare una piazza rotonda, il sentiero inequivocabilmente conduce a fiera fabbrica, alta nei suoi tre piani e una sorta di torretta e il gran fumaiolo, le mura grevi d’intonaco scrostato, rivelante le pietre e i laterizi della struttura, con finestre singole doppie triple, alte e diseguali, dai vetri intarsiati di crepe sottili -vetri di foresta?
Un fulmine illumina la facciata evidenziandone il verde cupo e il marrone, e specialmente accendendo di bianco scintillante un’alta finestra. Cos’è questo palazzo, visibilmente abbandonato, che sembra sorgere dalla terra come uno sperone di roccia sospinto da mano divina e poi dimenticato?
Se fossimo in un film dalla sceneggiatura prevedibile, in quella casa s’incontrerebbero oscure presenze, prone alla propria e assetate dell’altrui sofferenza.
Invece nel mondo reale questo è un insolito rifugio dal temporale ormai giunto sopra di me.
Cosí mi avvicino all’ingresso, un alto portone in legno a due ante, tinteggiato di nero. Al di sopra, un’insegna dello stesso nero legno, consunta da intemperie, con scure lettere dipinte o forse incise, difficili a leggersi (del nome infatti non fui mai certo), intrecciate in elaborate decorazioni:
Ho dunque raggiunto una biblioteca nel mezzo del bosco (corro ormai in solitudine umana da ore), lontana da qualsiasi centro abitato! Interessante, vero?
Il portone è chiuso, ma non v’è serratura o chiavaccio, e spingendo l’anta avanti e appena verso l’alto, liberandola dal fango rappreso, essa ruota, seppure indurita, sui cardini.
All’interno un’ampia sala, le cui pareti sono unica imponente libreria, estesa sino al soffitto, con montanti in guisa di rami, tutti difformi, e scaffali di legno chiaro, ora annerito da fine polvere; sui ripiani non soltanto libri ma strani oggetti; e là dove i ripiani sono assenti, le mura cosí riquadrate sono coperte di arazzi sbiaditi. Qua e là gli sbalzi di bianche efflorescenze di salnitro.
La sala ospita tavoli di lettura e sedie, e sui tavoli libri sparsi, fogli, matite, e buffe lucerne verdi, lí posati quasi il luogo fosse stato abbandonato d’improvviso, e mai piú frequentato; e tutto è coperto di polvere, qui piú densa, come terra.
Abituatisi gli occhi alla scarsa luce, riesco a leggere i titoli di vari testi (quelle che interpreto come etichette di catalogazione, sono codici alfanumerici che non mi rammentano il sistema Dewey e che non comprendo).
Procedendo nella sala in senso antioriario, individuo le sezioni: linguistica, con voluminosissimi vocabolari, molti dei quali di lingue antiche, e filologia; archeologia ed epigrafia; storia antica; fisica classica e moderna, informatica (sorprendente in un ambiente cosí vetusto); chimica, erboristeria, magia naturale.
La mia attenzione viene sviata dagli inconsueti soprammobili inframezzati ai testi: ampolle e barattoli in vetro, argilla, metallo, dal contenuto indefinito; gomitoli di tessuti diversi; ossa e gusci di animali terrestri e marini, talvolta dentro basse ciotole (ma non ve n’è di impagliati).
Di fronte all’ingresso una doppia serie di gradini, una scalinata a sinistra e una a destra, e ciascuna conduce ai piani superiori: saranno stabili? Non posso trattenermi dal provare.
Questo primo piano non differisce da quello sottostante; tuttavia negli spazi senza scaffali non sono stesi arazzi bensí appese maschere, in legno, carta, pelle, terracotta, semplici o riccamente decorate, ma irrimediabilmente rovinate; alcune dotate di finti occhi il cui sguardo vacuo e incessante mi soggioga e inquieta.
Noto un’ampia sezione dedicata alla musica, di cui rammento lo strano codice TH5555, e mi rallegra specialmente una serie di volumi sull’esplorazione ritmica nelle diverse culture terrestri.
Un’altra doppia scalinata sospinge verso il secondo piano.
Questa sala mi sembra meno estesa in larghezza, e certamente ospita una minor quantità di libri: infatti per lunghi tratti gli scaffali sono ingombri di radici e cortecce e pietre, grezze e sporche di terra o appena dirozzate, anche qui talvolta raccolte in ciotole.
Gli spazi vuoti sulle pareti sono invece ricoperti di un vivo intonaco: muschio verde e cremisi, che sembra radicarsi e attecchire soltanto là dove il misterioso architetto ha stabilito.
Decido di lasciare il mio pezzettino di corteccia insieme alle altre; soffio via un po’ di polvere, lo dispongo con cura e lo saluto.
All’orecchio e súbito dopo alla mente tornano in primo piano i suoni del temporale. La maggior parte del secondo piano è sotto il tetto dell’edificio e la pioggia lo batte con forza, soltanto sovrastata da tuoni occasionali. Mi sembra di percepire un lieve, continuo tremolio nel pavimento, e tendo l’orecchio per verificare se possa trattarsi dell’effetto di svelti passi, da piedi Umani o Animali o di altre stravaganti e rapinose Creature che l’ambiente con naturalezza suggerisce.
Di fronte a me, sulla sinistra, una scala a chiocciola sale verso la torretta; mentre a destra una botola lascia intravedere dal pavimento una scala a pioli che s’immerge verso il basso, in quello che probabilmente è un piano ammezzato.
Procedo verso sinistra. La scala a chiocciola oscilla, ma sembra sostenermi. La stanza che si erge sul tetto, sebbene all’esterno appaia rettangolare, all’interno risulta pentagonale; e nel suo slancio verso il cielo è propriamente dedicata agli astri.
La luce di un fulmine illumina infatti il primo volume dell’Astronomica di Marco Manilio, in grande formato, con una massiccia rilegatura marrone; sforzando lo sguardo, gli altri quattro volumi dell’opera sono disposti uno ciascuno sulle altre paretine del pentagono, insieme a vari testi pertinenti.
Su questa cima il tremolio è piú forte, anzi mi sembra che tutte le mura stiano divenendo instabili, ma prima di risolvermi a scendere (il buonsenso mi appella che proprio non dovrei essere lí su quel tetto, perciò non lo ascolto mai) apro sfogliando a caso il volume che ho di fronte e la scritta, in grandi lettere gotiche Schwabacher, appare:
“Chiave, nel Mare di Nebbia possa io accoglierti!“.
Sul momento penso sia soltanto una frase oscura e affascinante – magari nella luce incerta neppure ho letto correttamente. Ma, come spinta da una forza che non è parte di me, la mano va ad accarezzare il collo, trovandovi e tastando il ciondolo che indosso da anni.
È un pendente a forma di τ (tau), che voglio qui descrivere: una lettera ricavata da un unico pezzo di legno lucido per gli anni e indefinibile, lavorato con cura, su cui un filo di bronzo brunito si intreccia nell’innesto delle due linee verticale e orizzontale, filo terminante in un anello nel quale passa un laccio di cuoio, quest’ultimo di fattura recente.
Quando mi fu donato dai miei genitori credetti si trattasse soltanto di un ciondolo acronimo del soprannome, Tinnico, con cui venivo talvolta chiamato in scherzosa e colta relazione al mio secondo nome. Ma successivamente l’Anziana mi rivelò trattarsi di una piccola eredità della nostra famiglia, tramandata da diverse generazioni. Proveniva, pare, dal monastero di Mårkær, in Danimarca, una delle ultime sedi dei Fratelli Ospedalieri di Sant’Antonio (quei frati particolarmente dediti alla cura del herpes zoster e di altre malattie della pelle).
Un Duca di Schleswig, forse proprio quel Christian VII noto per la sua instabilità mentale, o un suo incaricato, l’avrebbe recuperato nella camera di un monaco prima che il monastero venisse infine demolito nel 1780.
Come il pendente fosse arrivato alla nostra famiglia rimane oscuro, ma i miei avi accarezzavano questa idea di discendere da una nobiltà poi decaduta e in esilio.
Ma il piano ammezzato? Basta fantasticare, l’esplorazione va completata. Cosí mi sprono, poiché quella botola dove la luce non penetra, seppure mi attiri, anche mi inquieta, non poco.