Lascio la torretta e ridiscendo al piano inferiore; traverso la sala dirigendomi súbito a sinistra, e un gomitolo di lana rotola sul pavimento, sfilacciandosi fra i piedi, tant’è che saltello e pesto per liberarmene: è viscoso.
Poi mi avvicino ai pioli della scala; li provo, sembrano ben fissati per nulla logori. Scendo lentamente, girando la testa tutt’intorno, pronto a reagire (mi dico: ma in attacco o alla fuga?) a chissà quale assalto.
Ebbene, in quello che sembra un mero pozzo verticale senza sbocco, nel muro dall’altro lato della scala appare un foro, ben visibile poiché ne emana una luce violacea.
E la forma del foro è esattamente, straordinariamente, incomprensibilmente speculare a quella del pendente!
Seguendo l’intuizione del momento sfilo il laccio dal collo e torcendo la spalla e allungando il braccio, inserisco il τ, mistico risalto, nell’intaglio luminescente.
Un altro tuono rimbomba con un rilascio lungo e lugubre come il rantolo di un gigante. Le pareti tremano ripetutamente, quasi volessero scuotersi via la polvere e ogni forma di decadenza, e forse anche gli ospiti indesiderati, penso; e pare che rese fluide perdano consistenza, simili a tende. L‘intonaco si lacera vieppiú.
Stringo i pioli fino a farmi dolere le mani.
Come grilli e raganelle, da scaffali e tavoli saltan giú libri e oggetti, odo i loro tonfi ora sordi ora crepitanti; e i tomi cadendo in terra e impudicamente aprendosi, rivelano la loro scienza: ma non posso leggerli ora!
Le commessure di un‘anta sottile, terminante ad arco, prima invisibile, senza maniglia, appaiono sul muro e intanto il pendente è scivolato dentro il foro, risucchiato nell’esofago di pietra.
Non occorre spingere poiché la segreta porta da sé inizia ad aprirsi verso l’interno, ma súbito cede e s’accascia da un lato lungo il piedritto, rivelando allo sguardo incerto un‘ultima sala circoscritta.
L’edificio continua a tremare, sebbene con minor impeto, come poco prima, quasi in attesa.
Giro su me stesso con cautela e mi affaccio all’arco: questa saletta che riluce appena di viola, come se le pareti ne trasudassero, ha una volta a cupola, bassa, opprimente, dipinta con affreschi in cui domina il blu scuro e l’oro, che non riesco a decifrare: mi trastullo al pensiero di una grande mappa, ma non vi individuo alcuna terra conosciuta.
Con un piccolo balzo entro dentro. Lo spazio risulta vuoto, salvo, al centro, un‘irregolare piedistallo di pietra serena che sostiene una valigia verde, decorata a riquadri d’acquamarina, forse in origine leggiadra ma ora consunta, chiusa con due cinture di pelle pelosa incrociate a formare un altro τ.
Quale prezioso tesoro essa cela? Provo a muoverla dal suo supporto, è estremamente pesante. Mi dedico allora a forzarne le dure fibbie (le cinture risultano sgradevoli al tatto, quasi irritanti) e la apro. L’interno della valigia appare lindo e asciutto: è rivestito di plastica trasparente e in un punto vi sono incollate placchette di piombo.
Contiene quaderni e cartellette di forme e fogli vari, e una piccola pila di floppy disk da 3,5 pollici, tenuti insieme con un elastico, tutti decentemente conservati e all’apparenza anonimi.
Il tremore nella biblioteca aumenta nuovamente; in questa stanza il rombo dei tuoni è assordante, un pulsare ritmico di immensi taiko. E nella semi-oscurità mi sembra che la volta cali a chiudersi su di me.
Sfoglio le carte frettolosamente, a disagio, ma convinto sia quella la meta cui sono stato condotto; le pagine sono scritte a mano, in una grafia orribilmente ostica… anzi alcune sono dattiloscritte. Senza dubbio vi sono due alfabeti che si alternano, uno latino (forse la lingua è proprio l’italiano), l’altro ignoto (nel momento mi ricorda un alfabeto indiano).
Alzo lo sguardo. Era cosí intima la sala? Ora mi sembra null’altro che una cella.
La volta bluastra oscilla come un rovescio mare impetuoso. Finalmente un terrore improvviso di rimanere schiacciato si impadronisce della mia mente. Ma so di non poter uscire senza portare con me quegli appunti cartacei e digitali, parole e numeri che certo rivelano verità che salverò dall‘oblio. I quaderni e i dischetti li infilo nella grossa intercapedine dello zainetto; altri fogli, arrotolati, nelle tasche strategicamente capienti dei pantaloncini.
Cosí agendo, tento di calmare le sinapsi turbate.
Ma non c’è spazio per tutte le carte!
Dal pavimento si innalza una nebbia purpurea.
Cado sulle ginocchia, sperimentando una fitta acuta al destro e maledicendo il corpo goffo; il soffitto è ora troppo basso perché io rimanga in piedi, eretto, e afferro le cinghie dello zaino e qualche pagina la tengo stretta nell’altra mano, sporca di terra e sudore, e striscio via dalla sala.
Fuori!
Un boato concluso con un lacerante pedale grave di trombone, e la parete con la porta (e il ciondolo che l’edificio indubitabilmente s’è preso in cambio) si sgretola.
Nel cunicolo respiro a fatica. Cerco di risalire i pioli quanto piú velocemente io possa. Tutto l’edificio sta cedendo. Attraverso la sala al secondo piano, tento di schivare, non sempre con successo, tutte le meraviglie che ora partecipano alla danza folle della rovina.
Anche le scale si stanno frantumando. Salto gradini.
Piano primo, la porpora è discesa empiendo e colorando di sé la sala. Dondolo in equilibrio su un‘asse. Pesto pagine preziose che si richiudono sui piedi come bivalve sulla preda. Scivolo in una bava indefinita (lacrime di legno e calcestruzzo?), riuscendo a battere insieme il braccio, il petto, la gamba. Rivoletti di sangue dal gomito. Ritorna il pensiero che se questa fosse una sceneggiatura non sarebbe originale. Respiro profondamente. Rimango concentrato. Ci provo.
Altri gradini. Pianterreno. Passo sotto un tavolo, evito i frantumi delle lucerne che riflettono debolmente la luce violacea. Scavalco un paio di sedie.
Fuori!
La polvere di calcina si fonde e confonde con la nebbia purpurea in una nube che acceca e asfíssia.
Tutta la biblioteca crolla, come l’antico maratoneta dopo aver consegnato il suo ultimo messaggio. E, fra la pioggia che cola dal cielo e il vapore che sale dalla terra, sembra che la muratura sia ingoiata nelle fauci di inferi pagani. Il Titano s’è ripreso la sua roccia.
Con gambe pesanti come tronchi, poi sempre piú scioltamente, senza guardarmi indietro, cessando di rimuginare, corro via.
una ricostruzione fittizia della Biblioteca
E sí, com’è ovvio tornai piú volte in quella zona. Ma mai mi riuscí di individuare il sentiero, di raggiungere lo spiazzo fra gli alberi e ritrovare le macerie e i molti libri ormai strappati e sparsi che pure ancora dovevano essere lí dove li avevo lasciati.
Ricerche su una biblioteca del luogo, o una con un nome simile a quello che avevo creduto di leggere, egualmente non hanno portato alcun esito. Tant’è che talvolta dubito della stessa mia memoria, che tutto l’episodio sia stato una fantasia allucinatoria sprigionatasi fra il bosco e il temporale. Però i ricordi sono chiari, dettagliati, cosí come li ho raccontati qui per la prima volta.
Soprattutto, quegli appunti li ho con me; esistono, e trattano di un mondo altrimenti ignoto, chiamato éstēsā. Se sia finzione, o cronaca di una realtà che oggi definiremmo parallela, ancora non so discernere; la mia indole mi spinge a privilegiare la seconda eventualità.
L’attenzione, il punto di vista, sembrano esser posti specialmente su una parte di questo mondo, detta thombînjā, da cui ho tratto appunto il nome della categoria.
Alla data in cui scrivo queste note, ho individuato sparsamente e assai frammentariamente: divinità, regni, battaglie, missioni, intrecci, razze e persone, e lingue, mappe, toponomastica e altro materiale. Similitudini con le mitografie e gli eventi della Terra e della razza Umana sono evidenti: se mondo parallelo è (o era), non è poi cosí diverso da quello che consideriamo il nostro.
Alcuni dei testi rinvenuti paiono purtroppo illeggibili. Durante la corsa (o la fuga…), la pioggia ha confuso le mine e gli inchiostri (in alcune pagine già sbiaditi) e lo sfregamento ha lacerato la carta, pur essa vecchia. Talvolta mi aiuto con una lente d‘ingrandimento, ma non sempre ottengo risultati apprezzabili.
Dopo vari tentativi, ho appurato che i floppy disk, che sono sette, sono formattati in AmigaOS (sistema operativo dei vecchi pc Amiga); uno tuttavia rimane illeggibile. Contengono file di testo semplice o in un formato di qualche antiquato word processor, comunque recuperabile, salvo i caratteri accentati, che purtroppo sono molti e che devo cercare di reinterpretare.
A volte trovo rimandi a quaderni o fogli che non riesco a individuare, probabilmente perduti nella rovina della biblioteca.
Confermo che la lingua neolatina dei documenti è l’italiano, ma vi sono anche passi in sardo, e che la grafia è pessima!
L‘altra lingua invece ha nome thómbīnjoþ, e risulta essere la lingua in uso nella regione citata. In qualche modo è apparentata con le lingue indoeuropee note; è infatti possibile tracciare chiari paralleli lessicali e grammaticali. Rimando l’approfondimento a un post specifico.
Senza una cadenza regolare, pubblico quel che riesco a recuperare da questi documenti, eventualmente aggiungo mie considerazioni.
E se in passato qualche persona mi ha sentito narrare questi fatti in altro modo, o che si trattasse di mie invenzioni letterarie, beh, semplicemente la verità non era quella. Infatti l’evento mi ha continuamente causato imbarazzo (se sono stato scelto quale “curatore”, temo di non essere degno del compito), e non mi sentivo pronto per raccontare la storia vera.