Essendo un nuovo monaco, recentemente entrato nella Via, quando il Venerabile Vaṇgīsa scorge un gruppo di donne eleganti e adorne in visita presso il monastero, sorge in lui passione lussuriosa.
Ma egli dissipa questo sentimento, non mancando di porre la sua esperienza in versi.
Ahimè! Ora che ho lasciato la casa per vivere come un rinunciante,
questi pensieri irresponsabili, generazione dell’Oscuro [Māra],
scendono su me.
Guerrieri potenti, grandi arcieri, addestrati, saldi tiratori d’arco,
migliaio d’uomini senza paura, potrebbero circondarmi da ogni parte.
Ma se anche giungessero più donne di tutti questi,
esse non mi faranno vacillare,
poiché nell’insegnamento sono fermamente stabilito.
Proprio in sua presenza udii dal Risvegliato, Sangue del Sole,
questa Via che conduce al nibbāna;
è lì che la mia mente s’è fatta stabile.
Malvagio, mentre io vivo così, se tu m’assali, così agirò,
o Morte, che tu non lo vedrai il mio sentiero.
Le notizie e i versi di questo post sono una nostra traduzione (incerta) di parti del saggio di John D. Ireland “Vaŋgīsa An Early Buddhist Poet”, Buddhist Publication Society, Kandy, Sri Lanka; il saggio è gentilmente offerto in libera distribuzione da Access to Insight, ma è caricato anche sul nostro sito, qui.
Una breve biografia
Il commentario (ThagA III 180-81) afferma che Vaṇgīsa era un bramino di nascita e che, prima dell’incontro con Buddha, sbarcava il lunario tamburellando teschi di cadaveri e proferendo così dove (in quale reame d’esistenza) la persona morta era rinata.
Il Buddha lo mise alla prova presentandogli diversi teschi, tra cui quello di un arahant.
Vaṇgīsa ebbe successo nelle prime prove, ma quando giunse a tamburellare il cranio dell’arahant rimase interdetto, poiché un arahant non rinasce in alcun luogo o condizione.
Decise allora di entrare nell’Ordine per scoprire il segreto di ciò.
Fu ordinato dall’Anziano Nigrodhakappa e più tardi divenne anch’egli un arahant.
Il commentario aggiunge che dopo aver composto alcuni versi in lode del Buddha si guadagnò la reputazione di poeta.
Secondo l’Apadāna (Ap II 497) Vaṇgīsa era stato chiamato così sia perché nato nel paese di Vaṇga (l’attuale Bengala) sia perché era un maestro (īsa) della parola parlata (vacana).
Nelle opere buddiste in sanscrito, come il Mahāvastu, il suo nome compare in modo inequivocabile come Vāgīśa, “Signore della Parola”.
Questo è, naturalmente, un soprannome; non conosciamo il suo nome effettivo, situazione comune fra le persone che compaiono nella letteratura buddhista delle origini.
“Signore della Parola”, o, forse meglio, “Maestro delle Parole” è un titolo adatto per un poeta!
Le poesie stesse ci offrono il quadro di un uomo dal temperamento sensibile e artistico, che trova difficile controllare la sua innata sensualità, resa manifesta nel suo attaccamento al sesso opposto.
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Inoltre, era orgoglioso del suo dono di invenzione poetica, ma riconosceva tale orgoglio come un difetto da superare (No. III). Il solo riferimento nelle poesie alla sua vita prima di incontrare Buddha racconta che Vaṇgīsa era ossessionato dall’arte poetica (No. XIII).
Tutto questo tende a mettere in dubbio l’autenticità della bizzarra storia del bramino “tamburellatore di crani”. In assenza di qualsiasi evidenza contraria forse è meglio considerarla una curiosità.
L’importanza di Vaṇgīsa sta nel suo talento come poeta, un dono che deve essere stato nutrito e sviluppato per un certo tempo prima che le poesie conosciute fossero composte.
Potremmo anche concludere che per qualcuno in grado di comporre versi spontaneamente, come Vaṇgīsa era in grado di fare, la sua produzione potrebbe essere stata enorme.
Le poche poesie “religiose” che sono sopravvissute possono costituire soltanto una piccola frazione di un Opus ormai perso per sempre.
La II parte…