Lasciato il mover de le frondi e di verzure (Ariosto) alla Fonte del Tiglio torno sulla strada forestale che, ascendendo nella forma d’una S allungata, mi porta al bivio per Santa Luce; ottimi sentieri, ma io giro a sinistra verso Pian del Pruno.
Qui un altro incrocio importante. C’è la lunga discesa che infine sbocca sulla strada provinciale, fra Pastina e Pomaia; ma che porta anche a tre aree attrezzate (la più grande ben frequentata da Umani con arrosti al seguito) fornite di panche e tavoli, forni e fontane, pannelli esplicativi, alberi offerenti ombra; uno dei luoghi dove, durante il giorno precedente, avevo sostato per preparare l’attrezzatura e il cibo.
Potrei scegliere fra molte deviazioni ma la mia strada prosegue sicura: la direzione ora è monte Vaso.
Questo è forse il tratto più selvaggio del percorso. Il bosco è fitto, i sentieri irregolari.
Nel sottobosco spesso si distendono grandi tessiture. Questa è una delle più spettacolari, e la foto non rende assolutamente giustizia all’imponente lavoro dell’aracnide.
La tana del ragno è in una buia galleria a un’estremità della tela. Il padrone di casa è corpulento ma non particolarmente grande; uno di quei ragni che preferirei non mi passeggiasse addosso, ma che nel caso allontanerei con nulla più d’una schicchera.
Immagino però che ritrovarsi tra quei fili viscosi sia l’incubo di molti insetti più e meno grandi; sebbene la mancanza di forte senso del sé che caratterizza il reame degli animali (non umani) li renda più indifferenti di noi nei confronti della sofferenza e della morte. Cacciare ed essere cacciati è l’oneroso impegno dell’equilibrio naturale.
Il percorso alterna salite e tratti in piano, e continua a restringersi, pur non creando problemi per il passaggio; anzi, i rami che si piegano ad abbracciarsi formano gallerie di fronde ombrose, ristoro del pellegrino corrente.
Intorno al 34° km gli alberi aprono le loro grandi braccia e dal sentiero di fronte si impone la visuale di Monte Vaso.
È pur vero che si tratta soltanto d’un’alta collina (siamo circa a 600 m slm), a tratti brulla e annerita dalle rocce sgretolate, ma l’effetto su di me, dopo la penombra del single track, è d’aver raggiunto il vasto spazio su una terrazza del monte Meru (click sull’immagine sottostante per ingrandire).
Inizio la discesa. Ci sono alcuni massi da scavalcare o saltare, un po’ più avanti rispetto a dove li ricordavo.
In questo tratto aperto appare la linea tondeggiante del monte Vitalba, con le sue pale eoliche.
È la prossima meta, lì dovrò ascendere nuovamente fin sulla vetta. Il pensiero non è propriamente confortante.
Il sentiero è sempre più stretto, un canalone nel quale i piedi trovano appena il loro spazio di movimento, così a volte li appoggio sulle pareti inclinate e salto via.
Non forzo l’andatura perché comincio a sentire un po’ di stanchezza e mi trovo poco oltre la metà del PoMaC: però mi diverto molto!
Bel gioco dura poco. Questa pendenza così presto termina!
Prima di immettermi sulla strada provinciale mi fermo sotto un albero, mangio e bevo; il terzo panino ha un fattore d’acidità ormai evidente all’olfatto e al gusto, l’acqua nel camel bag (riempito alla fonte del Tiglio) è meravigliosamente fresca.
Per oggi decido che la pioggia non ritornerà: non so se sentirmi appagato o rassegnato.
Cambio la maglia -indossarne una fresca e asciutta è piacevole- e appendo l’altra, a mo’ di sconcio bucato, fra il camel bag e il pannellino solare.