Due notti a Venezia, quasi in extremis, la Biennale d’arte si chiude a fine mese. È infatti poco più di una puntata rapida, per vederla come si deve servirebbero almeno 4 giorni solo per Giardini e Arsenale; non ho tutto questo tempo, ma nemmeno voglia di sottrarmi alla piacevole consuetudine di fare un’immersione a pieni polmoni in una importante selezione dell’arte dei nostri giorni; perché è questo quello che è la Biennale, una lettura del nostro presente, da parte dei curatori, da parte degli artisti, infine da parte nostra – osservatori, visitatori, presenze, a seconda delle categorie di analisi.
A distanza di giorni sento che alcune opere in particolare hanno giocato con il mio cervello quello che in psicologia viene chiamato apprendimento significativo e che, in quanto tali, probabilmente sono entrate a far parte della mia cassetta degli attrezzi per la comprensione del mondo intorno a me e per bearmi di tale comprensione.
Il primo pensiero in assoluto è al padiglione Brasiliano, per cui è stato scelto un video di Bárbara Wagner e Benjamin de Burca, Swinguerra, forse uno dei lavori per me tra i più belli.
Già il titolo, parola composta, fa pensare al tentativo di una sintesi, all’unità di due opposti e alla capacità del popolo brasiliano di tradurre anche in passi di danza i drammi che lo hanno attraversato e lo attraversano. Sento sintesi e unità anche nella scelta degli artisti di condividere la sceneggiatura con i ballerini protagonisti del film.
Non posso non ammettere di aver aperto, con questo lavoro, la porta alla mia esigenza di un’armonia che neutralizzi le parti di un tutto conflittuale. L’ho sentita e vista nelle coreografie, nei corpi degli adolescenti, nelle domande ammiccanti del pubblico – “ma quello è un uomo o una donna?” – e nella voglia, poi taciuta, di rispondere “è chi è”.
Se di tutto questo riflettere può essere responsabile la neuroestetica o chi per lei, per altri tipi di riflessioni forse devo fare appello ad altri attori; la storia e la politica mi vengono sicuramente in soccorso nel legare il video all’attuale situazione brasiliana; la storia dell’arte contemporanea mi permette di andare indietro nel tempo di almeno un decennio a rievocare le scelte artistiche di questo paese; con la tecnologia e altre discipline mi interrogo su come è stata realizzata l’opera e perché proprio così.
L’elenco dei perché è effettivamente sempre un buon viatico di comprensione, per tutto, per tutti, ma non l’unico.
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Con gli altri visitatori di mia conoscenza, ad esempio, riesco a giustificare solo con la notorietà dell’artista, l’opera di Jimmie Durham, Leone alla carriera, esposta al padiglione centrale dei Giardini. Un parallelepipedo rettangolare di serpentinite, poco più che un piano, Black Serpentine. Inerte, sta lì apparentemente senza funzione, senza significato, solo significante di minerali compattati dal tempo, poi tagliato, levigato, stoccato, trasportato via terra, via mare, di nuovo via terra. È questo il racconto che ce ne fa l’artista stesso, e l’inerzia e il piano funereo diventano qualcos’altro, un lungo viaggio preceduto da forza lavoro, un passaggio di mano in mano, un pensiero che ne permette la trasformazione. E anche qui, quanti piani vado a interrogare: il sistema di merci che si muovono in qualsiasi parte del mondo, la globalizzazione, l’estetica, la linguistica.
Ho il capogiro se penso a tutte le sollecitazioni a cui posso sottopormi davanti a un’opera d’arte e mi beo di tutto quello che riesco a mettermi in tasca, da riutilizzare al momento opportuno. L’arte, tra le altre cose, è infatti un ferro del mestiere, serve ad aprire, intaccare, sollevare e sollevarsi, ingrandire, spostare, scomporre, fissare, svitare e riavvitare.
E non è certo prerogativa dell’arte contemporanea avere una tale funzione. In tasca possiamo avere di tutto, dal Partenone che ha subito fortune alterne a seconda delle sensibilità dell’epoca, a Nicola Pisano, architetto e scultore che pisano non era, dal genio vinciano morto alla corte di Francia, a un impressionista anarchico come Pissarro che quella corte ha combattuto.
La carrellata può essere davvero lunga e oggi con questa pioggia incessante su tutto il povero stivale, per me, finisce con un’“operina” di cui ho letto ne L’Ora d’Arte sul Venerdì di Repubblica a firma di Montanari: lo stucco robbiano di San Francesco nell’omonima chiesa di Prato. Le categorie che entrano in gioco sono sicuramente la splendida tecnica, l’architettura, l’agiografia francescana; con la categoria storia però non penso certo all’Umanesimo che quell’opera ha generato, ma di nuovo al povero stivale allo stato attuale e a quanto bisogno avrebbe di sollevarsi, ingrandire, capire, svitare, riavvitare; anche al paese servirebbe qualcosa a cui volgere lo sguardo e che lo faccia pensare. Anche in questo caso la carrellata, con in testa Venezia e non solo, sarebbe lunga.