Una collaborazione fra associazioni:
Elicriso e Nexus Arti e Didattica,
col sostegno della Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato;
↓ una nuova performance
Migliaia di giorni di privazione assoluta, in cui la vita si spoglia di tutto per toccare il punto più estremo dell’esistenza individuale. I sogni e le emozioni, le ossessioni, i racconti salvifici, la fratellanza, la fede: nel vuoto della tenebra l’intangibile prende corpo facendo della vita interiore il teatro di molteplici narrazioni.
Prendendo spunto da una storia vera e dalla testimonianza di un ex detenuto, lo scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun arriva a sfiorare il mistero della sopravvivenza: quando la vita perde ogni appiglio la tensione etica lancia la sua sfida all’annullamento dell’essere umano.
La performance è una riduzione dal romanzo di Jelloun “Cette aveuglante absence de lumière“ (in edizione italiana “Il libro del buio”), di cui le associazioni vennero a conoscenza già anni addietro e su cui iniziarono a riflettere e lavorare per ottenerne una sintesi e un’adeguata resa scenica: attore, musicista e -per l’occasione- un allestimento specifico dell’artista Luca Macchi.
Per le sue peculiarità di testimonianza e accusa dei trattamenti disumani nei confronti dei detenuti, Amnesty International concesse a suo tempo e ha confermato oggi il proprio patrocinio al lavoro.
Saremo in scena per la prima (e ultima?) volta in occasione della 76° Festa del Teatro a San Miniato, all’interno del suggestivo Oratorio di Sant’Urbano a San Miniato, raggiungibile dalla cosiddetta “via Angelica”.
Per prenotare e per altre informazioni potete far riferimento alla segreteria del Dramma Popolare, che gestisce l’organizzazione: www.drammapopolare.it | 0571 400955
e alla pagina su DIY Ticket (la piattaforma che si occupa della prevendita).
Vi lasciamo con una breve registrazione audio tratta dalle nostre prove.
Dopo lo spettacolo
Il commento musicale era coinvolgente, sosteneva la lettura senza mai sovrastarla e dialogando perfettamente con la voce.
E che dire dell’interpretazione…
Se volessi dare un tocco esotico al lavoro potrei definirlo: “teatro sciamanico”. Nel senso che vi è la straordinaria capacità di evocare sulla scena i protagonisti interpretati. Nello sciamanesimo si dice “farsi osso vuoto” per prestare il proprio corpo alle energie pur rimanendo coscienti e gestendo la situazione. Il processo messo in atto è ovviamente diverso ma il risultato non cambia.
Ci siamo immersi totalmente nella prigione descritta da Tahar Ben Jelloun, mentre il protagonista ci narrava gli avvenimenti. Anche il corpo dell’attore sembrava rattrappito e dolente. La tensione rimane così alta dall’inizio alla fine.
La commozione raggiunge il suo culmine durante la lettera alla madre: la voce, ancora più bassa e quasi sussurrata, mette le ali e viaggiando alta nel cielo ci porta in una dimensione altra, momentaneamente fuori dall’incubo. Ritornare alla realtà della cella è terribile.
Tutto perfetto, anche la scenografia e le luci, che abbagliandoci sul finale ci hanno dato la sensazione del ritorno alla Luce dopo anni di oscurità. Che altro dire? Bravi, bravi, bravi!